La Sindone è vera, rifacciamo gli esami
Padre Berbenni: vennero programmati 26 interventi, fu realizzato solo quello con il carbonio 14
La Sindone di Torino non è soltanto un documento importante per la storia del cristianesimo ma anche un vero e proprio laboratorio di ricerche. Alcuni tra i più qualificati scienziati del mondo si sono occupati di questo telo di lino. È la «reliquia» critiana più conosciuta, tanto che una mostra su di essa ha attirato folle anche in estremo Oriente. Incontriamo Gianfranco Berbenni, il francescano che coordina (con Gabriella Girelli) i due corsi di sindonologia — uno esegetico e uno medico — alla Pontificia Università Lateranense.
Professor Berbenni, a che punto sono le ricerche scientifiche sulla Sindone?
«Il lato debole, dal 1972 a oggi, è che esse non sono mai state affidate a un’équipe universitaria. Intendo dire a studiosi di una o più università non distaccate, che riuscissero a integrare le varie facoltà per presentare un progetto di analisi. Anche il celebre gruppo americano, lo STRP, forte di circa 40 persone di chiara fama, non ebbe tale caratteristica. Erano studiosi singolarmente impegnati. E apparteneneti a diverse fedi religiose, un fatto che non va sottovalutato. Non c’è stato però un coordinamento di alto livello tra le discipline».
Di conseguenza?
«C’è ora lo spazio per programmare una ricerca con queste caratteristiche. Si può ammettere che sino a oggi sulla Sindone si è realizzato un 20% di quello che si potrebbe fare».
Perché ha detto dal 1972 in poi?
«In quell’anno Max Frei, criminologo di Zurigo, fu convocato per autenticare le foto della Sindone del 1969. Notò che il tesssuto era ricco di polveri e sedimenti. Propose di prelevarne dei campioni e, partendo dai pollini, tentare datazione e provenienza. Con lui le scienze tecnologicamente avanzate si interessano al telo».
Poi cosa è successo?
«Passiamo al 1976-77. Due militari statunitensi, Jackson e Jumper, dopo aver visto le foto della Sindone, decidono di sottoporle al VP-8 (un elaboratore di immagini usato per mettere a fuoco foto spaziali non nitide e per dare tridimensionalità ai dati). Lo fecero grazie al dottor Lynn, che lavorava a Pasadena. A questo punto l’interesse esplode. Il volto acquista tridimensionalità anatomica e non pittorica».
Cosa suscitò la nuova immagine?
«Cominciarono le ricerche del gruppo più allargato coordinato da padre Rinaldi, salesiano statunitense di origini italiane, che organizzò ad Albuquerque (New Mexico) un convegno scientifico a cui partecipò il Centro Romano di Sindonologia e furono coinvolti scienziati di Los Alamos. È l’estate ‘77».
E quel convegno…
«Fu una svolta storica. L’indagine scientifica della Sindone si divise: da una parte la teoria americana, dall’altra quella che io chiamo “la teoria con i piedi per terra”».
Si spieghi meglio…
«Gli americani cominciarono dal volto, che rivela una sofferenza serena. Come mai il telo, si sono chiesti, registra l’impronta della fossa nasale? Scoppia l’ipotesi che la traccia delle parti dove non ci fu contatto fosse causata da un’energia da studiare. Nel 1978, in ottobre, il gruppo americano ha il permesso di realizzare indagini fotografiche e prelievo di materiale per 3 giorni. Gli scienziati giunsero con 10 tonellate di strumenti, con scorte e visti speciali. Erano uomini importanti per la sicurezza Usa».
Dopo di che?
«Nel 1981 pubblicano i risultati in una ventina di articoli su riviste scientifiche. Il 13 maggio Jackson e monsignor Ricci (fondatore del Centro Romano di Sindonologia) sono a san Pietro per essere ricevuti dal papa. L’attentato di quel giorno impedisce l’incontro. Nel dossier, tra l’altro, c’era la foto di una fibra della Sindone intrisa di sangue. Nell’’82, l’Accademia delle Scienze dell’Urss riconosce l’inoppugnabilità delle ricerche americane».
La tappa successiva…
«È il 1984. Viene presentata al cardinale di Torino Ballestrero, custode pontificio (la Sindone è «donata» nel ‘83 dai Savoia al Vaticano) un fascicolo con 26 nuovi progetti di indagine sul telo, tra cui quello del C-14 (il carbonio 14 radioattivo), un metodo molto usato in campo archeologico e antropologico. Tra l’’84 e l’’88 pressioni molto forti riescono a scorporare il C-14 dagli altri esami. Alla fine, dei 26 proposti, sarà l’unico».
Ma forse era il più importante…
«Anche tra i restanti 25 ce n’erano di essenziali. Ma le pressioni vinsero e così il 21 aprile 1988 si realizzò il prelievo per l’unico esame. Il 13 ottobre si annunciarono i risultati. I quali, è noto, rivelarono che “allo stato attuale” delle indagini si dovrebbe datare la Sindone tra la metà del XIII secolo e la fine del XIV. Il fatto diede un colpo mortale al gruppo scientifico americano che, sostanzialmente, si sciolse. Trionfa l’ipotesi medievalistica».
Il gruppo STRP allora sparì?
«Non del tutto. Dopo le polemiche, dal ‘92 al ‘96, alcuni di loro proseguono le ricerche. Ne realizzano — sempre per la datazione — verificando eventuali effetti del gas radioattivo radon. Esaminano i rivestimenti microscopici provocati da funghi, capaci di alterare la datazione».
E dopo?
«Fermiamoci al ‘96. In quell’anno esplode la ricerca sul DNA della Sindone, invero con procedure improprie. Garcia Valdes comunica di averlo individuato. Pubblica il volume Il DNA di Dio. Il cardinale Saldarini, arcivescovo di Torino, sconfessa la procedura con cui si era arrivati al dato. La cosa più grave è la notizia, ampliata dai media, che era stato messo in banca il DNA per poterlo utilizzare in una eventuale clonazione. La reazione della Chiesa è comprensibile».
L’incendio del ‘97 come entra in questa storia?
«Le fiamme che minacciarono nell’aprile la Sindone portarono all’emergenza il problema della conservazione. Da quel momento esso è diventato anche il cuore della ricerca».
Cosa intende dire?
«Che, ad esempio, nel ‘98, con l’ostensione per il centenario delle prime foto, si sono realizzate immagini ad alta definizione e, di pari passo, anche ricerche scientifiche per la preparazione della teca di custodia. Nel 2002 questo problema è risolto: la Sindone è stesa, non più avvolta, in un contenitore con l’assenza d’aria e per migliorare la condizioni di conservazione si usa un gas inerte, l’argon».
Nel luglio del 2002 non vennero tolti i rattoppi alla Sindone?
«Sì, le aggiustature del 1532 e anche il telo di supporto. Con il permesso del papa si è fatta anche la foto del retro».
Ma ci sono anche altre ricerche, ad esempio l’impronta delle monetine sugli occhi, una scritta…
«Le considero deboli, inaffidabili. Non punterei sulle monetine coniate negli anni di Tiberio o sulla scritta “Nazarenus”. Scientificamente non reggono».
Qual è, seondo lei, l’unico dato inoppugnabile?
«Che il sangue presente sul telo è umano. Si è identificato anche il gruppo sanguigno. Inoltre c’è la presenza di bilirubina: si tratta dunque di sangue traumatizzato. Di più: è sangue catalogabile come “intra vitam” e “post mortem”».
Nel 1978 un analista di Chicago, McCrone, annunciò di aver trovato dei pigmenti pittorici…
«È ipotesi già sconfessata dagli studi del gruppo STRP. A riprova le foto agli ultravioletti del ‘78-’81 dimostrano l’uscita del siero giallastro dal costato, di quel liquido che non si vede a occhio nudo sul telo. Nessun pittore può aver usato vernici per ottenere effetti invisibili!».
Ma il C-14 resta un dato che…
«Le rispondo con franchezza che quelle analisi andrebbero ripetute. È vero: sono state realizzate da tre laboratori, ma le pressioni furono innumerevoli. Per arrivare a dissipare i dubbi, si dovrebbe ripetere l’analisi e fare un confronto con ulteriori campioni di duemila anni fa. Dal primo esame del C-14 sono passati 15 anni: per la scienza è un’enormità. Andrebbe costituito un pool di «carbonisti» per procedere alla seconda serie di indagini. Che, del resto, era già prevista nel 1988, proprio al taglio del tessuto sindonico. Ricordo che se n’è usata la metà, l’altra sarebbe disponibile per ulteriori ricerche. I carbonisti hanno affinato le metodiche. C’è anche da tener presente l’irrompere delle nanotecnologie».
Mentre padre Berbenni dice queste cose, ricordiamo che la Fondazione 3M ha partecipato e sostenuto logisticamente le ricerche del 1988. Essa, grazie all’intervento di Antonio Pinna-Berchet, suo presidente, custodisce l’archivio del professor Giovanni Riggi di Numana contenente dati di varia natura dal 1978 in poi. Mentre ci accomiatiamo da padre Berbenni, gli chiediamo a bruciapelo: «Secondo lei, è proprio il telo che avvolse Nostro Signore»? Sorride. Risponde: «Si».
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